La metafora della Chiesa come “ospedale da campo dopo una battaglia” è una delle immagini più evocative del pontificato di Papa Francesco, profondamente radicata nella sua esperienza come pastore a Buenos Aires. Questa visione si concentra sull’urgenza di “curare le ferite” e trova un simbolo tangibile nella sua scelta di risiedere nella Domus Sanctae Marthae, un luogo che storicamente nacque come lazzaretto, destinato all’accoglienza dei malati. Vivere in questo spazio periferico, anche all’interno del Vaticano, sottolinea la missione della Chiesa: ritirarsi in un angolo per curare le proprie ferite e, soprattutto, dedicarsi alle profonde lacerazioni che affliggono l’umanità.
Al centro di questa missione di “cura” ci sono gli “ultimi”, coloro che vivono ai margini, nelle “periferie esistenziali e geografiche”. Queste aree, come le “villas miserias” argentine, non sono considerate da Francesco semplici problemi, ma una “componente essenziale” per la vitalità stessa della Chiesa e della società. Egli ha trasformato queste marginalità in un punto centrale della strategia cattolica.
Tra questi “ultimi”, gli immigrati occupano un posto di rilievo nella visione del Pontefice. Le comunità di immigrati poverissimi, spesso prive di documenti e ai margini delle grandi città, sono viste come portatrici di “nuovo sangue e nuovi valori”. Lungi dal rappresentare solo potenziali pericoli, essi sono considerati una “potenzialità” e un “antidoto alla secolarizzazione e all’indifferenza globalizzata” che affliggono le società consolidate. L’integrazione di queste realtà, che assomigliano alle “città invisibili” di Buenos Aires annidate nel cuore delle capitali, non è solo un dovere etico, ma una “necessità” impellente per evitare che le società stesse diventino periferiche e decadenti.
La sua visita a Lampedusa, un’isola simbolo degli arrivi di migranti in Europa, è stata un gesto potente che ha equiparato questa realtà alle “villas miserias” argentine. I migranti globali in fuga da guerre e povertà sono visti come l’equivalente, in contesto europeo, di coloro che a Buenos Aires ingrossano le file del sottoproletariato urbano. Questa visione, che paragona l’immigrazione contemporanea alle invasioni barbariche che portarono “nuovo sangue” e contribuirono a superare la decadenza dell’Impero Romano, suggerisce che gli immigrati possono apportare “nuovi valori alla comunità europea”.
L’attenzione alla “pastorale delle grandi città” deriva direttamente da questa prospettiva. Raggiungere le milioni di persone che vivono in periferie disperate, come fanno i “preti villeros” che vivono nelle “viscere di queste città invisibili”, significa riconoscere la ricchezza culturale e umana che vi si trova e le loro “potenzialità”. Bergoglio ha il merito di aver dato centralità a queste realtà nella sua strategia pastorale, promuovendo l’integrazione urbana e sottolineando che le “villas” hanno molto da dare alla città.
In definitiva, la visione di Papa Francesco, saldamente radicata nella sua esperienza nella “città occulta” di Buenos Aires, presenta gli immigrati non come un peso o una minaccia, ma come parte fondamentale di quegli “ultimi” le cui ferite la Chiesa, quale “ospedale da campo”, è chiamata a curare. Essi portano “nuovi valori e nuovo sangue” e rappresentano un elemento cruciale nel contrastare il declino delle società consolidate e nell’offrire un cammino di rinnovamento e di speranza per la Chiesa e per il mondo intero. La loro inclusione è vista come una necessità vitale per un cattolicesimo che vuole essere attivo e presente nelle realtà più fragili del mondo contemporaneo.