STORIE RIPROPOSTE | 2016-2024 ASD Le Tre Rose di Casale: Quando il Rugby Unisce Fonte: Sport, scuola di vita: il caso delle Tre Rose Rugby – La Vita Casalese
Le Tre Rose di Casale: Quando il Rugby Unisce – Casale Monferrato 29 dicembre 2016
CASALE MONFERRATO – 29 dicembre 2016 “Mi piace giocare perché mi fa sentire libero. Qui ci insegnano le regole, che sono applicate a tutti”. Youssef Syla ha 25 anni, viene dalla Costa d’Avorio e fino a pochi mesi fa non aveva mai visto una palla da rugby. Oggi è uno dei protagonisti de “Le Tre Rose”, la squadra di Serie C di Casale Monferrato che ha convinto la Federazione Italiana Rugby a cambiare il regolamento sui giocatori stranieri.
Vengono dal Mali, dalla Costa d’Avorio e dal Sudan. Sono arrivati in Italia da pochi mesi e oggi, mentre la giustizia decide se potranno restare, studiano italiano e giocano a rugby ed alcuni hanno già trovato lavoro. Nel rugby casalese gli italiani si contano sulle dita di una mano: il resto sono maliani, ivoriani, sudanesi, più un rumeno e un argentino.
Nel cuore della squadra, l’eco dall’Africa
“Il mio sogno è sempre stato quello di essere un atleta professionista, ma ho 25 anni quindi forse è un tantino tardi”, continua Youssef. “Nel mio Paese ero un meccanico. È stata dura lasciare tutto ma non ho avuto scelta.”
Negli spogliatoi si parlano diverse lingue e c’è chi traduce le parole del capitano simultaneamente in inglese e francese. Il progetto è nato grazie a Paolo Pensa, presidente de “Le Tre Rose”, e Mirella Ruo, che offre alloggio e assistenza ai ragazzi 24 ore su 24.
“È un lavoro impegnativo perché i ragazzi non sono sempre puntuali ed è un tour de force riunirli tutti”, sorride la Ruo, che però li tratta come fossero i suoi figli. Tre volte a settimana accompagna i giocatori dai centri di Frinco, Valenza e Roncaglia fino al campo di Casale per gli allenamenti serali.
Qui siamo tutti uguali
Siriki, dalla Costa d’Avorio, è molto diretto quando parla di razzismo: “Vedo come mi guardano le persone quando salgo sull’autobus o cammino per la città è come se mi sentissi in colpa perché sono qua. Ma nella squadra siamo tutti uguali: bianchi e neri. Poi, alla fine della partita, tutti insieme con i nostri avversari a mangiare la pasta. Sarebbe bello se fosse così anche tra la gente.
Mbemba Coulibaly racconta la sua routine: “Adesso sto studiando italiano, vado a scuola e poi mi alleno e gioco a rugby. Sto aspettando di completare i documenti per un permesso di soggiorno, poi, quando avrò imparato bene l’italiano, mi piacerebbe lavorare in un ristorante.
Mantiene i contatti con la famiglia in Mali: “Sono venuto via da solo. Sono passato dal Mali all’Algeria poi alla Libia. Da lì sono arrivato in Italia lo scorso settembre.Quando posso, vado su Facebook. Mi piace molto. I tuoi amici su Facebook sono qui in Italia o in Mali? “Mali, Mali…”, risponde sorridendo.
L’incertezza dell’attesa
“In media ci vogliono otto mesi per scoprire se otterranno il permesso di soggiorno ma se viene rifiutato, possono fare appello”, spiega Mirella Ruo. “Sfortunatamente il tribunale respinge praticamente tutti e questo significa che i ragazzi rimangono qui per circa due anni prima di avere una risposta definitiva.”
E dopo? “Poi se ne vanno in Francia, Germania o Belgio, sperando che andrà meglio. Quelli che hanno già contatti vanno in Belgio; per Francia o Germania devono sperare in Dio.”
Il viaggio di Ali
Ali Abubakar ha 19 anni ed è l’unico del gruppo ad aver ottenuto il permesso di soggiorno. Quando gli si chiede di raccontare la sua storia, sorride tristemente: “È meglio sedersi perché richiede un po’ di tempo.”
“Sono nato in Sudan e sono arrivato qui in Italia l’11 aprile 2014. Avevo cinque anni quando è morto mio padre. Sono andato in Ciad con mio fratello e sua madre, perché io non ho mai conosciuto la mia. Siamo stati lì per due anni ma il Paese era devastato dalla guerra, quindi siamo partiti per la Nigeria.”
Il racconto si fa più drammatico: “La nostra vita era difficile, molto difficile. Non avevamo cibo e non c’erano scuole. Nel 2013 abbiamo lasciato tutto e siamo andati in Niger e da lì in macchina fino in Libia. È stato un viaggio di 25 giorni con poco cibo e poca acqua.”
Ma il peggio doveva ancora arrivare: “In Libia c’è una tribù, i Tubu, che sono considerati ‘neri’. Noi siamo neri e parliamo arabo come loro, ma i libici ci chiamano ‘Tubu’ e avevamo paura che ci avrebbero ucciso. Mio fratello lavorava come meccanico e io studiavo, ma un giorno lui è stato arrestato e messo in prigione per un mese. Molti neri sono stati catturati, messi in prigione e uccisi. Quindi abbiamo deciso di scappare in Italia.”
Il viaggio per mare è stato infernale: “Ci hanno detto che c’era una nave che andava in Italia, ma dovevamo pagare e non avevamo soldi. Abbiamo notato che molte persone salivano sulla barca senza pagare, così siamo saltati anche noi. Siamo rimasti in mare per cinque giorni e cinque notti, senza acqua e cibo. Io sono svenuto. Quando sono arrivato in Italia sono stato ricoverato per qualche giorno in ospedale.”
Un presente di speranza
Oggi Ali guarda al futuro con ottimismo: “La mattina lavoro come magazziniere. Ho uno stage di sei mesi e spero di poter rimanere alla fine del periodo. Il pomeriggio vado a scuola e la sera faccio teatro – mi hanno detto che sono bravo – e la domenica gioco a rugby.”
Per questi ragazzi il rugby è diventato molto più di uno sport. È l’unica occasione per incontrare i loro coetanei italiani al di fuori della scuola, dove studiano con altri stranieri, e dei rapporti con i volontari, molto più grandi di loro.
“Lo sport è cruciale per loro perché l’integrazione è difficile”, conclude Mirella Ruo. “Sul campo da rugby trovano quello che manca nella vita quotidiana: un posto dove le regole valgono davvero per tutti.”