Papa Francesco è descritto come un uomo del Nuovo Mondo, proveniente dall’Argentina, definito “Estremo Occidente”. Essendo il primo pontefice figlio di una megalopoli come Buenos Aires, che ha anticipato molti dei problemi che la Chiesa cattolica e il mondo globalizzato si trovano ad affrontare oggi, il suo approccio alla Curia romana è quello di un portavoce del Nuovo Mondo. Questo non rappresenta solo un cambiamento geografico di provenienza, ma un cambio di modo di pensare e di percepire il cuore della Chiesa.
Le fonti evidenziano che lo spostamento del baricentro delle priorità della Chiesa, prima ancora che del potere, è filtrato simbolicamente dai luoghi. Il senso di questo cambiamento risiede nello spostamento del baricentro dei problemi verso le periferie. Bergoglio è considerato un testimone e, in un certo senso, un anticipatore di questo fenomeno. Egli lo ha colto prima basandosi sull’esperienza diretta, e lo ha poi elaborato proponendolo come una lettura vincente all’episcopato latinoamericano e, successivamente, mondiale.
In questa visione, le periferie sono considerate una componente essenziale. Esse rappresentano sì nuovi problemi, ma anche nuovo sangue e nuovi valori. Le periferie includono la religiosità popolare, che Francesco vede come un antidoto alla secolarizzazione e all’indifferenza globalizzata.
L’impegno a fianco degli “ultimi” è un tratto distintivo del pontificato di Francesco, profondamente legato alla sua esperienza pregressa. Dalle “villas miserias” di Buenos Aires, le borgate incistate all’interno e ai limiti della megalopoli argentina, Bergoglio ha colto il potenziale pastorale e lo ha reso parte integrante della sua strategia. I problemi comuni a molte megalopoli, dall’America Latina agli Stati Uniti, e anche in Africa, Asia ed Europa, chiamano in causa la Chiesa, specialmente perché molti degli immigrati erano e sono cattolici. I sacerdoti che lavorano in queste periferie hanno svolto e svolgono un lavoro pastorale che cerca di esaltare la pietà popolare, creando una rete di piccole cappelle per la preghiera. Francesco ha riconosciuto l’importanza strategica di queste periferie e l’ha inserita nella sua pastorale, potenziando le “trincee” e frequentando la popolazione delle villas, andando a piedi o in autobus a sorseggiare il mate con i poveri. Per lui, la Chiesa deve essere “povera per i poveri”.
Gli immigrati sono una categoria che rientra in primo piano tra gli “ultimi” a cui Francesco dedica attenzione. Il gesuita padre Juan Carlos Scannone, suo ex insegnante, sostiene che “Francesco è il papa dei barbari, che cerca di conciliare le due realtà”. Questa affermazione si riferisce alla sua posizione sull’immigrazione del XXI secolo dall’Africa verso l’Europa, paragonata alle invasioni barbariche che duemila anni fa interessarono l’impero romano. Secondo questa analisi, come i barbari portarono nuovo sangue e aiutarono Roma a superare la sua decadenza, così gli extracomunitari possono apportare nuovi valori alla comunità europea. L’ex arcivescovo di Buenos Aires ha trasformato queste marginalità in un pezzo importante della strategia della Chiesa cattolica, promuovendo l’integrazione dei “nuovi barbari” e additandone non solo i pericoli ma anche le potenzialità.
La scelta di Francesco di vivere nella Domus Sanctae Marthae, rifiutando l’Appartamento papale, è vista come un segnale forte di questa pedagogia dell’esempio personale. Santa Marta, un edificio che anticamente era un lazzaretto pontificio per i malati di colera, è diventata la metafora di una Chiesa paragonata da Francesco a un “ospedale da campo dopo una battaglia”, che decide di appartarsi in un angolo periferico del Vaticano per curare le sue ferite e riprendere vigore. Vivere e comportarsi da povero, praticando la frugalità e l’austerità, marca un profilo che riflette un approccio totalmente nuovo nel rapporto tra papa e fedeli. Questo modo di agire inedito ha permesso alla Chiesa di passare rapidamente da “imputato globale” ad autorità morale nuovamente ascoltata e influente. L’Appartamento papale, sebbene non sfarzoso, era percepito da Francesco come una “gabbia” e una “trappola” che aveva isolato il suo predecessore dalla realtà circostante. Santa Marta, al contrario, è descritta come una sorta di sala iperbarica dove l’istituzione papale si ossigena, prendendo atto che i palazzi vaticani avevano tolto aria e libertà al predecessore. L’umanità che si incrocia nella mensa comune di Santa Marta e il viavai di incontri rappresentano uno spaccato di una Chiesa che rimescola tutto, avvertendo che non esistono più gerarchie e posizioni di rendita precostituite. Santa Marta è stata fin dall’inizio la metafora di questa bonifica radicale, indicando l’inagibilità degli spazi tradizionali, quasi fossero contaminati da una sorta di “Chernobyl dell’anima”.
Questo spostamento del baricentro verso le periferie e l’attenzione agli ultimi, in particolare agli immigrati, è percepito da alcuni come parte di una “rivoluzione di papa Francesco”. Tuttavia, questo approccio incontra resistenze e disapprovazione negli ambienti più tradizionalisti e curiali. La “lobby dei gattopardi” o il “partito italiano” curiale, sconfitto in Conclave, vede la scelta di Santa Marta e l’austerità di Francesco come “banale marketing” e resiste ai cambiamenti. La sfida che Francesco ha davanti è proprio quella di imporre il suo modello anche a Roma. O vince lì, o rischia di rimanere un’anomalia trapiantata nel cuore del potere vaticano destinata a essere rigettata.
Il pontificato di Francesco, plasmato dalla sua esperienza nella megalopoli di Buenos Aires e dalla sua profonda attenzione alle periferie esistenziali e geografiche, segna un cambio di paradigma che cerca di riportare la Chiesa a fianco degli ultimi, vedendo negli immigrati e nei poveri non solo destinatari di carità, ma portatori di valori e linfa vitale.